Lo Zampino
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"Stiamo lavorando per noi": disparità di genere nel mondo del lavoro

L’intervista di questa settimana non è un’intervista, è un dialogo: professioniste che raccontano le discriminazioni vissute sul lavoro, gli stereotipi che ancora pesano nelle loro vite, i commenti inopportuni sussurrati nei corridoi e quelli detti fieramente ad alta voce. Abbiamo parlato di questo, ma anche di cosa, insieme, si può fare per cambiare davvero le cose. Perché, lo diceva già il noto motto utilizzato delle suffragette: “Fatti, non parole”.



Ilaria, 31 anni, Software Developer


In Italia e a livello globale il numero di programmatori informatici è più alto tra gli uomini che tra le donne. Questo è dovuto a fattori storico-culturali, ma negli ultimi anni c’è stato un incremento delle presenze femminili nel mondo del Coding. Quali pensi che siano le criticità nella differenza di genere nel mondo dell’informatica? Hai mai incontrato/subito commenti sessisti relativi al tuo lavoro?

L’ingegneria è sempre stata storicamente una materia da uomini perché parte da una buona base di matematica e fisica e, banalmente, parlando di stereotipi di genere, le lettere erano considerate più una materia da donna, mentre i numeri più da uomo.


Personalmente non ho mai risentito di questa ideologia e il mio percorso è stato piuttosto lineare: sono sempre stata portata per la matematica, quindi l’informatica e l’ingegneria informatica sono state una naturale conseguenza del mio percorso.
Mi rendo conto però che in alcuni ambienti questi stereotipi siano ancora forti e possano condizionare molte ragazze che vogliono intraprendere il percorso di studi per diventare programmatrici. Per fortuna oggi i numeri stanno cambiando, ma ricordo che al liceo, quando ho deciso di seguire il percorso informatico, eravamo solo cinque ragazze. Durante il percorso di Laurea Triennale eravamo molto poche e, anche andando avanti con gli studi, eravamo solo circa 15 donne.


Per quanto riguarda il posto di lavoro, non ho mai subito nessun tipo di commento “sessista”. I miei superiori mi hanno sempre fatta sentire allo stesso livello dei miei colleghi uomini, per fortuna, nonostante in azienda non siamo molte programmatrici donne.




Marta, 29 anni, Maestra


Statisticamente, in Italia, 8 insegnanti su 10 sono donne. Tale disparità è più marcata nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, mentre diminuisce progressivamente nella scuola secondaria. Nel tuo lavoro, senti il peso della differenza di genere?

Nel mio ambiente lavorativo, essendo composto quasi interamente da donne, non sento il peso della differenza di genere nelle relazioni quotidiane.
Di solito tra colleghe c’è comprensione, empatia e supporto reciproco, poiché condividiamo molte esperienze professionali ma anche personali.
A livello sociale e istituzionale però molto spesso percepisco che la professione educativa — soprattutto nella scuola dell’infanzia e primaria — venga ancora considerata “un lavoro da donne”, e quindi meno valorizzato, meno riconosciuto e talvolta meno rispettato.
Questo non viene detto apertamente, ma lo si avverte, ad esempio, nel modo in cui viene percepita la nostra professionalità o nel riconoscimento economico e sociale della nostra figura educativa.

Da un punto di vista prettamente personale, invece, ciò che a volte pesa, sono alcune aspettative sociali: l’idea che una donna “debba” necessariamente avere una famiglia, dei figli, o che, se non li ha, prima o poi lo farà.
Capita che qualcuno dia per scontato che il mio tempo libero sia meno “valido” o meno impegnato proprio perché non ho figli, come se avessi automaticamente più tempo o meno responsabilità.
Non è un giudizio esplicito, ma si percepisce in piccole frasi o domande, che sembrano innocue, ma ricordano che certe aspettative culturali sulle donne sono ancora molto radicate.
A volte pesa proprio questo: sentirsi definita non per ciò che si è, ma per ciò che “ci si aspetta” che una donna debba essere.



Francesca, 31 anni, Archeologa


Spesso, sui cantieri, le archeologhe vengono chiamate “signore” o “signorine” e non “dottoresse”, come accade per i loro colleghi uomini. Questo è un esempio di discriminazione legata al genere. Oltre alla sensibilizzazione, c’è qualcosa che potrebbe “normalizzare” pensare che in archeologia ci siano anche, e non poche, donne?

“Signora o signorina?”, è la prima domanda che mi pongono quando metto piede su un cantiere. La mia risposta è sempre la stessa: “O dottoressa, o Francesca.”
Non “Come ti chiami?” o “A che titolo sei qui?”, ciò che importa è se sono o non sono sposata. Molto spesso per gli uomini, principalmente quelli di mezza età, dire signora o signorina è sinonimo di cortesia; sul posto di lavoro no, non lo è affatto. Perché i miei colleghi uomini non vengono chiamati signore o signorino ma direttamente dottore?

Non credo esista una formula magica per risolvere la discriminazione di genere sul posto di lavoro ma credo fermamente in due principi: innanzitutto, non bisogna fomentarla. Se io oggi vengo chiamata signora e non dottoressa, ma domani una collega accetta di essere chiamata signorina “perché tanto che sarà mai”, le cose faranno sempre più fatica a cambiare. Bisogna essere coerenti negli input che si danno.
Sono laureata? Sì.
Sono un’archeologa abilitata alla professione? Sì.
Non vedo perché io non debba essere chiamata dottoressa.

Il fatto che mi faccia chiamare per nome non implica che il mio ruolo su un cantiere non debba valere per quello che è solo perché sono una donna.

L’altro principio è l’educazione: affinché tra 10, 20 o 30 anni le archeologhe del futuro non debbano più sentirsi porre la domanda che ancora io mi sento porre oggi, è necessario che le scuole, le famiglie e la società educhino i bambini al rispetto reciproco, alla parità di genere e all’affettività. Solo in questo modo, lavorando sulle nuove generazioni la Francesca Archeologa del 2055 verrà chiamata dottoressa appena arriverà sul suo cantiere.



Virginia, 28 anni, Art Director


Molto spesso nelle aziende i ruoli di spicco sono ricoperti da uomini, mentre le donne, anche se in maggioranza, sono relegate a condizioni subordinate. Cosa pensi della discriminazione di genere in contesti aziendali?

Inizio con il sottolineare che nell'azienda dove lavoro ci sono tantissime stagiste, tutte donne. I direttori creativi, invece, sono tutti uomini.
Vorrei pensare che questo squilibrio sia dovuto al fatto che il mondo stia cambiando e che hanno iniziato ad assumere più donne, ma credo che le motivazioni siano diverse.
Ritengo, purtroppo, che gli uomini tendano a stringere rapporti più forti con altri uomini, promuovendo loro a scapito delle professioniste donne. Nel mio team, ad esempio, siamo tutte donne tranne un collega uomo, ma i miei capi sono tutti uomini.
Ci sono tante piccole disuguaglianze verso le donne a cui nemmeno badiamo, perché le consideriamo di poco conto.
Sono sicura che se ci fosse al posto mio e delle mie colleghe, una coppia di uomini, penso che i nostri capi ne avrebbero maggiore considerazione, non per demerito nostro, ma perché ritengo che intrinsecamente ci sia una complicità tra uomini anche a livello professionale.
Me ne rendo conto, ad esempio, se fanno qualche battuta volgare davanti a me e chiedono scusa subito dopo, come se, perché donna, io non possa sentirla.

Oppure ricordo di quando, in un'altra azienda dove ho lavorato, il mio capo mi accolse nel suo ufficio, tenendo le scarpe sulla scrivania e, per convincermi ad occuparmi di un’azienda di make-up, mi disse: “Tranquilla, di là sono tutte femmine, quindi il lavoro è semplice”.
Queste situazioni sono molto frequenti e radicate, insieme alle preoccupazioni sugli atteggiamenti che una donna deve o non deve avere, al modo in cui deve o non deve vestirsi a lavoro, alle battute a cui si finge di non dare peso.



Rosanna, 31 anni, Infermiera


In Pronto Soccorso gli infermieri e le infermiere accolgono decine e decine di persone ogni giorno. Quali sono le principali discriminazioni di genere che incontri nel tuo lavoro?

Già alla porta di accesso, al triage, è possibile notare la prima differenza sostanziale con cui gli utenti si rivolgono all'infermiere triagista uomo e all'infermiera triagista donna: differenza per modalità, linguaggio e temperamento.

"Chissà a chi hai aperto le gambe per stare lì dietro", è sicuramente un’affermazione poco piacevole da ascoltare, soprattutto se sei un dipendente di sesso femminile di un’azienda sanitaria che, alle ore 11.30 di un affollato turno di lavoro, apre la porta del triage per raccogliere dati circa le condizioni di salute di un paziente.


Signorì è l’appellativo più comunemente usato dal “ceto medio” per rivolgersi a qualsiasi operatore sanitario di sesso femminile. Al contrario un collega di sesso maschile più facilmente viene chiamato dottò, intendendo implicitamente la qualifica di Medico, semplicemente perché individuo di sesso maschile.

Del resto, nonostante l'infermiere sia nato come figura ausiliaria, nel corso del tempo ha raggiunto traguardi importanti: in primo luogo un profilo professionale proprio, poi l’istituzione di un ordine professionale con annessi diritti, doveri e responsabilità.

Eppure è ancora molto comune l’idea dell’infermiere di sesso femminile come segretaria, come ausilio del medico, come figura sottomessa e in quanto tale attaccabile dal punto di vista personale e professionale solo perché donna.
Donna che in fase mestruale è ritenuta più irascibile e indisposta di un collega di sesso maschile.
Donna, quindi priva di forza e rigidità, sia fisica che mentale.
Donna, quindi bersaglio di commenti carichi di riferimenti sessuali.

La divisa bianca lascia spazio all’immaginazione; se la divisa è colorata non si perde occasione per chiedere di che colore sia l’intimo.

La vicinanza fisica, richiesta a volte dalle procedure assistenziali stesse e da interventi pratici, pone quasi alcuni operatori di sesso maschile, siano essi OSS, infermieri o medici, oltre che l’utenza, nella posizione di “allungare le mani”, di guardare con malizia la scollatura della divisa, di fare battute e commenti a sfondo sessuale.

Questo costringe, quando non si hanno mezzi e possibilità di imporsi e pretendere rispetto, l’infermiera ad adeguare l’abbigliamento, ad adeguare il trucco, a cambiare un profumo per non essere categorizzata come poco di buono, per non essere “quella” che ha ottenuto un ipotetico contratto di lavoro per capacità e competenze non strettamente attinenti al profilo professionale, per non essere additata come “quella che se la fa con...”
Perché?
Perché non può essere un infermiere di sesso maschile ad aver “aperto le gambe”?
Perché non può essere un uomo ad aver meno forza fisica e psichica di una donna?
Perché non è un infermiere di sesso maschile a subire molestie?
Perché un individuo di sesso maschile è per categoria superiore e più libero di un individuo di sesso femminile?
Eppure la retribuzione mensile, nel mio caso, è la stessa.
Eppure gli orari di lavoro e le competenze richieste sono le stesse.
Eppure i diritti e i doveri sono gli stessi.
E allora perché non il valore?



Chiara, 35 anni, Impiegata Amministrativa


Lavorare nel campo della ristorazione in uno stadio potrebbe non essere considerato comune per una donna. Come, nel tuo lavoro, ti interfacci a colleghi uomini? Hai mai avuto problemi legati all’essere donna?

Avendo iniziato a lavorare come barista, ho sempre avuto un approccio cordiale con i clienti di sesso maschile.
Nel momento in cui ho avuto uno scatto di ruolo e sono diventata responsabile, c’è stato un po’ di spaesamento. Alcuni degli uomini con cui lavoravo hanno preso positivamente il mio nuovo ruolo e mi hanno fatto i complimenti; altri, invece, hanno avuto da ridire: c’è stato del vociare interno all’azienda nella quale lavoro. “Chissà com’è arrivata lì”, dicevano alcuni dei commenti, come se non meritassi davvero il mio nuovo ruolo, solo perché sono una donna e sono partita dal basso.
Ho impiegato tre anni per ottenere una nuova posizione, con impegno e costanza, ma quando è una donna ad avere un ruolo di rilievo, sorgono spesso dubbi sulle modalità del suo raggiungimento.



Paola, 29 anni, Dottoressa in Beni Culturali


In Italia il 60% del totale dei laureati nel settore dei beni culturali è donna. Nel tuo contesto lavorativo, percepisci il peso della differenza di genere?

Ho la fortuna di lavorare in un ambiente lavorativo totalmente maschile in cui non ho mai avvertito questa differenza. Anzi, spesso sono proprio loro a mettere in risalto questo aspetto, riconoscendomi ancora più valore come persona e come professionista.

Al contrario, ultimamente ciò che mi pesa di più è non sentirmi sicura quando esco per strada. Quando torno a casa da sola tendo, quasi inconsciamente, ad accelerare il passo e a guardarmi ogni tanto alle spalle.
Quel messaggio alle amiche: “Sono arrivata”, è diventato un piccolo rito, un abbraccio virtuale che ci scambiamo per proteggerci a distanza. La realtà che viviamo quotidianamente ci porta ad assumere atteggiamenti che ormai fanno parte di noi.



Sara, 33 anni, Medico


É frequente che nelle corsie di un ospedale si abbia la concezione che la figura del medico debba essere ricoperta da un uomo, nonostante i primi ospedali gestiti da medici donna risalgano alla Prima Guerra Mondiale. Si sente ancora molto la discriminazione di genere nelle corsie del 2025?

Sì, è frequente che i medici donna vengano appellate come signorina e non dottoressa. A volte automaticamente mi chiamano infermiera. Capita anche che, in presenza di uno specializzando, magari più giovane di età, chiamino lui dottore e non me. È una visione ancora molto radicata quella del medico prettamente uomo.


Anche il modo di rivolgersi al medico donna è diverso: se ad un uomo danno del Lei, a me danno del Tu, oppure mi parlano in maniera più colloquiale. Talvolta mi chiedono se sono un medico.

Alle donne è chiesto, più spesso che agli uomini, di fare sempre tutto perfettamente, sia nella vita sociale che in quella lavorativa. Le discriminazioni di genere e i luoghi comuni sono visibili in tante situazioni. Ad esempio, se una persona risponde male, nel caso si tratti di un uomo, quello è il suo carattere; se a rispondere male, invece, è una donna, questa sarà considerata isterica, oppure nervosa perché ha il ciclo. La stessa cosa in caso di gravidanza: mi è spesso capitato di sentire commenti del tipo: “Lei non vuole lavorare, per questo è sempre incinta.



Stefania, 29 anni, Giornalista


Qual è l’episodio più sorprendente o assurdo che ti è capitato nella tua carriera giornalistica e che ha messo in evidenza una differenza di trattamento legata al genere?

Non ho un singolo episodio definibile come "assurdo" da portare come esempio, perché penso che ci siano alcune cose, come atteggiamenti o pensieri, talmente radicati da essere considerati normali. Per alcune persone, al contrario, assurdo è ipotizzare di poter modificare convinzioni saldamente radicate.
Nel contesto lavorativo noi donne siamo così abituate ad essere trattate diversamente, che sarebbe "assurdo" se fossimo considerate alla pari di colleghi uomini della stessa età.


Nel mio lavoro la differenza di genere si vede, è tangibile, perché una professionista donna giovane non viene presa seriamente quanto i colleghi uomini. È difficile da spiegare.
Ad esempio, c'è stupore se una donna giovane propone di affrontare tematiche particolari; fa scalpore se una donna fa un'inchiesta straordinaria su un argomento di cui si occupa da anni. Questa deve essere competitiva, prepotente, quasi una bulla: tutte caratteristiche non positive insomma.


Perché per fare valere un mio diritto devo essere arrogante? O lottare più degli altri? Voglio semplicemente fare il mio lavoro. Non pretendo di rubare il posto a qualcun altro, solo di avere un posto mio. Non credo nemmeno che questa volontà sia una pretesa, ma ci viene fatta pesare come tale.

Ricoprire un ruolo di rilievo per una donna non è semplice. Nel mio caso, ai vertici ho visto più frequentemente uomini, che mi trattavano come fossi la loro figlia, senza soppesare le parole o i commenti. E nel mondo della comunicazione, il fatto che non si badi alle parole è preoccupante.