I fatti di cronaca e di politica internazionale delle ultime settimane che hanno coinvolto la regione del Medio Oriente ci hanno spinto a qualche riflessione sulla tutela del patrimonio culturale in caso di conflitto armato. Ne abbiamo parlato a lungo e ci abbiamo riflettuto.
La crisi umanitaria a Gaza, le vittime civili dei bombardamenti e le condizioni di difficoltà assoluta ci impongono di sottolineare quanto l’argomento che affronteremo sia “marginale” rispetto alla perdita di vite umane e alla sofferenza provata dalle persone coinvolte in qualsiasi guerra. Dal febbraio 2022 in Ucraina, dall’ottobre 2023 nella striscia di Gaza e negli oltre cinquanta conflitti che scuotono da anni il mondo contemporaneo.
L’altro aspetto che abbiamo considerato riguarda l’affezione “intellettuale” che alcune di noi provano verso i luoghi e i siti coinvolti. “Ci penso e sento un nodo allo stomaco” non è un’esagerazione. Probabilmente chi si occupa di beni culturali lo può capire.
Immaginate che un giorno l’Italia venga attaccata e che bombardino, per dire, il Colosseo; o il Duomo di Milano; o Piazza dei Miracoli a Pisa. Durante la Seconda Guerra Mondiale queste cose sono accadute, ma molti di noi non erano neanche nati e chi è nato dal secondo dopoguerra in poi, queste situazioni le ha viste, forse, solo in TV. In concreto, chi ha la nostra età non ha idea di cosa si tratti.
Cercheremo di spiegarlo brevemente.
L’attacco al patrimonio culturale di un Paese non è un effetto collaterale dei bombardamenti o degli scontri, ma un simbolo di aggressione, una dimostrazione di forza. Colpire il patrimonio storico-artistico di una nazione significa privarla della sua identità, della sua storia e, di conseguenza, del suo futuro. Era una pratica ampiamente utilizzata nell’antichità. Oggi la stiamo solo riciclando.
Se bombardassero noi, non ci sentiremmo privati di un pezzo della nostra storia o di una parte della nostra identità? È questo che simboleggia l'aggressione al patrimonio culturale: "Io non solo ti tolgo la libertà, ma ti privo anche dei tuoi simboli, delle tue radici. Non ci sarà più memoria di ciò che eri prima". A Gaza più della metà dei siti appartenenti al patrimonio culturale del Paese sono stati danneggiati o distrutti.
Citiamo l'episodio del furto del gruppo scultoreo dei Tirannicidi. Realizzato da Antenore come emblema di libertà e democrazia per gli Ateniesi, fu sottratto da Serse durante la seconda guerra persiana (480 a.C.). Le due statue bronzee rappresentavano i due protagonisti, Armodio e Aristogitone, nell’atto di attentare alla vita dei tiranni Ippia e Ipparco. I due furono uccisi ma, dopo la cacciata di Ippia (510 a.C.), la città di Atene gli dedicò le statue, facendole collocare nell’agorà, dove rimasero fino all’arrivo dei Persiani. Dopo, furono trasferite in Oriente, verosimilmente a Susa, una delle capitali dell’Impero Achemenide, mentre in Grecia fu fatto realizzare un secondo gruppo scultoreo. Fu durante l'avanzata di Alessandro Magno (dal 334 a.C) nei territori Persiani, che il Macedone (cioè Alessandro) si riappropriò dei Tirannicidi e li rispedì ad Atene, riconsegnando ai cittadini un importante simbolo della polis.
Alessandro Magno è vissuto nel IV secolo a.C., direte. Ed è vero. Vediamo come funziona oggi. In teoria, c'è una legislazione apposita che regolamenta la tutela del patrimonio culturale in caso di guerra. In pratica? La situazione è più complicata.
Il principale punto di riferimento internazionale per la gestione del cultural heritage in caso di conflitto è la Convenzione dell'Aja del 1954, cui hanno fatto seguito due protocolli e la Dichiarazione sulla Distruzione Intenzionale del Patrimonio Culturale dell’UNESCO del 2003.
Sul sito della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco si legge: “La Convenzione mira a proteggere monumenti, opere architettoniche, siti archeologici, opere d’arte, manoscritti, libri e altri oggetti di interesse artistico, storico o archeologico, nonché collezioni scientifiche di qualsiasi tipo, indipendentemente dalla loro origine o proprietà, per preservarli da distruzione, furto o saccheggio. Gli impegni assunti dagli Stati parte della Convenzione servono a preservare il patrimonio culturale attraverso l’attuazione di varie misure”.
Tra queste, ci sono quelle da attuare prima di un conflitto: la creazione di unità speciali all’interno delle forze militari che si occupino solo dei beni culturali; la preparazione di inventari e la pianificazione di misure di emergenza per proteggere dal rischio di incendio e crollo o la previsione dello spostamento dei beni in luoghi sicuri.
Ricordate cosa faceva l’Isis circa dieci anni fa? Il gruppo estremista, tra 2014 e 2015, attaccando intenzionalmente il patrimonio culturale, ha fatto riaccendere l’attenzione per la tutela dei beni in aree di crisi e di conflitto. Prima di allora, c’erano stati l’assedio alla città vecchia di Dubrodvnik del 1991 e la distruzione ad opera dei Talebani dei Buddha della Valle di Bamiyan del 2001.
In quegli anni, l’Unesco ha adottato provvedimenti che vietassero il commercio di beni culturali provenienti da Iraq e Siria, ha creato una Unità di Preparazione e Risposta alle Emergenze nell’ambito del Settore Cultura e ha istituito un Fondo di Emergenza per il Patrimonio. Nel 2015 è stata adottata una strategia compatta per la protezione della cultura e la salvaguardia del pluralismo culturale in caso di conflitto armato, allo scopo di prevenire e mitigare la perdita del patrimonio e di inserire la protezione culturale come azione umanitaria tra le strategie di sicurezza e costruzione della pace.
Il nostro paese, in tal senso, è piuttosto attivo. Nel 2015, l’Italia ha proposto al Consiglio Esecutivo dell’Unesco che fosse istituita la Task Force dei Caschi Blu della Cultura, composta da esperti del MiC e del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, da mettere a disposizione degli Stati Membri.
Negli ultimi anni, per l’Ucraina, è stato creato un “Gruppo di emergenza per i musei ucraini”. In Medio Oriente, la situazione è più complicata. In questa regione, così come altre aree di crisi, è molto frequente il traffico illecito di beni culturali che contribuisce ad alimentare il mercato nero internazionale e sfrutta la fame e la povertà della popolazione locale, spingendola a saccheggiare siti archeologici. Anche i gruppi terroristici si avvalgono del traffico di opere d’arte per finanziare le proprie attività. Se a questi fattori, si aggiunge la difficile situazione politica, i presupposti per la salvaguardia del patrimonio si azzerano.
I trattati internazionali non consentono piena tutela. Lo stato di Israele, ad esempio, firmatario della Convenzione dell’Aja del 1954, avrebbe dovuto organizzare le proprie attività militari a Gaza in modo da evitare i siti culturali principali. Secondo un rapporto dell’Indipendent International Commission of Inquiry on the Occupied Palestinian Territory, Including East Jerusalem, and Israel delle Nazioni Unite, citando Sarvy Geranpayeh, tra l’ottobre e il dicembre 2023 sono stati bombardati e distrutti numerosi siti identitari palestinesi: il Museo Al Mat’haf, il primo museo archeologico di Gaza; il Palazzo del Pascià e la Chiesa di San Porfirio, la terza più antica del mondo. In questo caso, la distruzione del patrimonio palestinese non è giustificata da “necessità militari”, pertanto nel rapporto, le operazioni contro il cultural heritage vengono definite crimini di guerra.
Quanto ancora devono pagare i popoli dei Paesi mediorientali, in termini di storia, cultura, identità e memoria, oltre che di vite?