Può succedere, talvolta, che le emozioni siano difficili da comprendere e da esprimere e che le relazioni con le persone che ci stanno intorno appaiano come qualcosa di oscuro e indecifrabile. Qual è la giusta distanza? Qual è la giusta quantità di amore e attenzioni perché non siano né troppo né troppo poco?
Non c’è un’equazione esatta. Può capitare che riconoscere e accettare un corpo che cambia nel tempo e che è il primo strumento che abbiamo per relazionarci con il mondo diventi l’unico nostro pensiero: l’unica cosa che sentiamo di poter controllare e abbiamo bisogno di utilizzare per comunicare quello che le parole non riescono a dire. Quando si parla di disturbi alimentari, che nell’attuale DSM (il principale manuale per la diagnosi dei disturbi psichiatrici) sono denominati Disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, la preoccupazione eccessiva per l’immagine corporea è uno dei criteri cardine per poter fare diagnosi. Non bisogna però banalizzare il tema, affermando che i modelli presenti nella moda e nei social media e a cui siamo tutti facilmente esposti, siano la causa del problema. Sebbene la cosiddetta “diet culture” e il bombardamento costante di immagini di perfezione fisica possano funzionare da fattori aggravanti o di mantenimento, soprattutto per i ragazzi e le ragazze in fase di crescita e sviluppo, la questione è molto più complessa.
Le prime diagnosi
Facciamo un passo indietro. La prima diagnosi di anoressia si trova in un testo di medicina pubblicato a Londra nel 1689. L’autore, Richard Morton, descrisse due casi: quello di una ragazza di 18 anni e quello di un ragazzo di 16 anni, in cui non erano riscontrabili cause fisiologiche o mediche per la restrizione alimentare che, invece, appariva collegata a forti stati di ansia o depressione.
Settantacinque anni dopo, nel 1764, lo scozzese Robert Whytt segnalò un disturbo alimentare psicogeno. Si trattava di un ragazzo quattordicenne per il quale oggi si farebbe diagnosi di depressione: uno stato che l’autore definì “privo di spirito e pensieroso” e che costituì la seconda diagnosi di anoressia storicamente registrata da un medico. Dopo un intervallo di quasi cento anni, nel 1860, il medico parigino Louis-Victor Marcé notò che, tra le varie forme di deperimento alimentare, alcune avevano un’origine puramente psicologica e comprese che il fenomeno colpiva per lo più giovani ragazze nel momento del primo sviluppo fisico. Più tardi, nel 1873, un altro medico francese, Charles Lasègue, riportò otto casi di emaciazione e deprivazione alimentare su base psicologica, sottolineando la sofferenza emotiva dei pazienti. Lo stesso anno, circa sei mesi dopo, William Gull, a Londra, descrisse altri tre casi e, per la prima volta, utilizzò quell’espressione che si sarebbe poi affermata universalmente: anoressia nervosa. Due anni dopo, nel 1875, l’italiano Giovanni Brugnoli descrisse altri due casi di questo tipo a Bologna.
Dopo le prime segnalazioni, per decenni si cercò di trovare spiegazioni di natura medica, per lo più endocrinologica, a questi disturbi, ma sarà soltanto con il lavoro di Hilde Bruch (1973, 1982) e di Mara Selvini-Palazzoli (1974) che la natura psicologica dell’anoressia nervosa verrà riaffermata e descritta come un disturbo quasi delirante della valutazione delle proporzioni corporee. A questo, si aggiungono difficoltà di comprensione dei segnali corporei di fame e sazietà e un paralizzante senso di inadeguatezza e di insufficienza di fronte agli impegni della vita adulta, nonché la restrizione dietetica come surrogato illusorio di quel carente senso di competenza, efficacia e autonomia personale che affligge questi pazienti (fonte StateOfMind).
La nosografia attuale
Attualmente, nel DSM 5 (APA, 2013), i disturbi alimentari sono descritti come caratterizzati da “un persistente disturbo dell’alimentazione o di comportamenti collegati con l’alimentazione che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che danneggiano significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale”. Se escludiamo quelli più tipicamente associati all’infanzia (Pica, Disturbo di ruminazione, Disturbo da evitamento/restrizione dell’assunzione di cibo), i principali disturbi alimentari sono l’anoressia nervosa (AN), la bulimia nervosa (BN) e il binge eating disorder (BED).
Partiamo con ordine. Per poter porre una diagnosi di anoressia nervosa, è necessario che ci siano sintomi come restrizione calorica in relazione al fabbisogno, che porta a un peso corporeo significativamente basso nel contesto di età, sesso, traiettoria di sviluppo e salute fisica. Deve essere presente un’intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi, oppure un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, anche se molto basso. In queste persone, il peso e la forma del corpo hanno un’eccessiva influenza sui livelli di autostima e, in generale, si riscontra una persistente mancanza di riconoscimento della gravità della condizione di sottopeso (APA, 2013).
La bulimia nervosa si manifesta, invece, con ricorrenti episodi di abbuffate caratterizzati da due aspetti. Il primo è mangiare, in un determinato periodo di tempo (per esempio, in due ore), una quantità di cibo significativamente maggiore rispetto a quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili. Il secondo è la sensazione di perdere il controllo durante l’episodio. Sono inoltre criterio per la diagnosi, ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva.
Il binge eating disorder, infine, è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate associati al mangiare molto più rapidamente del normale, fino a sentirsi spiacevolmente pieni. Consiste nel mangiare grandi quantità di cibo anche se non ci si sente fisicamente affamati e mangiare da soli a causa dell’imbarazzo per quanto si sta mangiando, con episodi di disgusto verso sè stessi, depressione o senso di colpa dopo l’episodio (APA, 2013).
Manifestazioni tipiche dei disturbi alimentari e componenti psicologiche
I disturbi alimentari sono di origine complessa e multifattoriale: sono il risultato dell’interazione di fattori predisponenti (genetici, psicologici, ambientali e socioculturali), fattori precipitanti (diete restrittive e difficoltà psicologiche personali) e fattori di mantenimento (sindrome da digiuno e rinforzo positivo dall’ambiente). Le statistiche ci segnalano che la prevalenza dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa si aggira rispettivamente intorno allo 0,9% e all’1,5% nel genere femminile, mentre in quello maschile le percentuali sono 0,3% per l’anoressia e 0,5% per la bulimia. Il periodo più critico per l’insorgenza dei disturbi sembra essere quello della preadolescenza, tra i 10 e i 13 anni (fonte InTherapy). Dal punto di vista psicologico, questo è un periodo che può essere vissuto con grande difficoltà a causa dei cambiamenti che naturalmente avvengono nel corpo, nelle relazioni sociali e negli scopi di vita.
La preoccupazione per l’immagine corporea è centrale nel funzionamento delle persone con disturbi alimentari che, attraverso i tentativi di controllare il cibo e il rapporto con esso, cercano di controllare aspetti più complessi dell’esistenza che spesso hanno a che fare con le emozioni, le relazioni con gli altri, la realizzazione nello studio o altre attività potenzialmente gratificanti che però sembrerebbero essere compromesse, in molti casi, da una tendenza al perfezionismo come risposta a un percepito ipercriticismo proveniente dalle figure di riferimento.
Cosa succede nella mente delle persone con disturbi alimentari? Tendono a giudicare il proprio valore esclusivamente in termini di peso, forma del corpo e controllo sull’alimentazione e, sulla base di questo, mettono spesso in atto comportamenti di eccessivo controllo della forma del corpo con lo scopo di rassicurarsi: “non sono cambiata”, “non sono diventato grasso”.
I controlli, o check, possono avvenire in diversi modi: guardandosi allo specchio, pesandosi frequentemente sulla bilancia, toccando le ossa del corpo, verificando che ci sia uno spazio tra le cosce, confrontando il proprio corpo con quello di altre persone, con foto proprie o altrui. A seguito di tali comportamenti, nonostante un iniziale senso di appagamento, un largo campione di persone con disturbi alimentari riferisce un vissuto di malessere e il continuo ripresentarsi di uno stato apprensivo relativo alla forma fisica.
Secondo Dalle Grave (2001), la tendenza al controllo sull’alimentazione fornisce una prova evidente e immediata di capacità di autocontrollo, perché ha un potente effetto manipolatorio sugli altri e, in particolare, sui familiari che di norma e tendono a investire gran parte della propria attenzione sul figlio o figlia con disturbo alimentare. Più che vedere il disturbo alimentare come un problema, così come accade con tutti i disturbi di origine psicologica, potrebbe essere utile considerarlo come un tentativo di soluzione che le persone mettono in atto per affrontare problemi che si trovano a un livello più profondo e per i quali non sentono di avere altre risorse disponibili.
Le possibilità di cura
Da questa breve panoramica si può comprendere quanto i disturbi alimentari siano complessi e richiedano, di conseguenza, trattamenti altrettanto complessi. I livelli di intervento sono molteplici e necessitano della presenza di più figure professionali: medici psichiatri e nutrizionisti, psicoterapeuti ed educatori che possano lavorare in modo coordinato e continuativo. Per questo spesso la strategia migliore è inserire le persone in contesti ambulatoriali o residenziali dove siano presenti tutte le figure necessarie. Soprattutto nei casi più gravi di anoressia nervosa, la priorità è mettere i pazienti in sicurezza dal punto dei vista dei parametri relativi al peso che, quando estremamente ridotto, può causare scompensi fisiologici ed energie insufficienti per accedere a contenuti mentali ed emotivi su cui lavorare. Nella cura dei disturbi alimentari non si è mai soli: è importante coinvolgere i familiari, informandoli ed educandoli sui meccanismi dei disturbi stessi e sul contributo che loro possono, più o meno consapevolmente, fornire al mantenimento dei sintomi.